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Roma, Complesso del Vittoriano, Febbraio - Marzo 2005

UNA METAFISICA CORPOREITÀ

L’immagine che ci introduce al mondo di Ernesto Maria Ruffini ci narra dell’osmosi fra due sagome morbide, curvilinee, l’una chiara, l’altra scura che si compenetrano all’interno di una scacchiera allusiva, le cui studiate contrapposizioni appaiono da un lato musicalmente orchestrate, dall’altro vagamente disorientanti.

Domina una difficile idea di unità, un sogno di edenica ricomposizione da parte di entità prive di corporeità, tentato per reciproca sottrazione o mutilazione. Una mutilazione apparentemente indolore, esente da dramma, poiché ogni elemento rimanda a componenti esteticamente docili e armoniose, quasi pronte a mimare una danza rituale, basata su movimenti avvolgenti, ritmati e seducenti.

Forse l’artista è sostenuto da un ricordo o da una speranza, ed è dalla parte di queste potenze affettive che bisogna cercare il segreto della sua fantasia. Di passaggio in passaggio egli mira ad esprimere un contenuto poetico, che tende ad accantonare il dramma.

Si sottrae volutamente ad indagare anche la profondità formale delle immagini, le alleggerisce di ogni vita inutile, elimina radicalmente ogni idea di realismo. Una metafisica sui generis, non riconducibile alle corrusche ironie dechirichiane, simbolo di solitudine, di mancanza di senso. Né ci stupisca l’uso diretto, adottato in alcuni casi, di materiale ligneo, poiché anch’esso è caricato di suggestioni astrattive. Domina la capacità allusiva delle superfici, sia che siano dipinte, affidando al colore le scansioni dei piani, sia che siano costituite da sagome concretamente realizzate, ma sempre secondo un’idea di sublimazione. Sono fantasmi, che spesso accentuano la loro irrealtà nel guizzo terminale, a fiamma, delle loro forme e assimilano in un gesto di lontana ascendenza Déco, elementi curvi e spigoli geometrici.

Mirano a rivelare l’aspetto spirituale delle cose, attraverso una trasposizione onirica della realtà, la creazione di immagini che sorgono dall’inconscio. Una astrazione non espressa in rigidità raggelata, in atmosfere di incubo, che riflette invece, seppure indirettamente, il soffio di un umano sentire.
Il manichino, pure senza volto, non appare privo di anima.
L’artista afferma, nella sua dichiarazione di poetica, che “le sensazioni sono immagini della mente, ma anche emozioni”, fonde razionalità e sentimento, elementi geometrici e fantastici.

Nell’eleganza della Chiave di violino 4, vediamo il dato geometrico assorbito all’interno di una sagoma, nella Chiave di violino 3 le componenti rigide non riescono a turbare la perentorietà del disegno di un corpo femminile trionfante. E’ un omaggio alle sue curve e alla sua avvenenza, venato di morbida sensualità, pure resa in modi così insoliti. Trionfo ribadito nei toni fondi di Predominio e Sublimazione, oltre che nel pallore siderale di Allusione in perla. Elemento simbolico, la figura femminile è figura interiore della psiche, identificabile con l’anima jungiana, personificazione di sentimenti, di presentimenti, di atteggiamenti nei confronti dell’inconscio.

Maria Teresa Benedetti